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giovedì 6 dicembre 2012

Storia di un processo a tesi che non decolla...

da "ilgiornaleditalia"
Ingroia lo ha definito "il processo che più mi ha impegnato negli ultimi anni di lavoro". Non è ancora stato celebrato e già ha fatto la sua prima vittima, Loris D'Ambrosio, il consulente di Giustizia del Colle, morto d'infarto a luglio. 
Ecco perchè la Corte Costituzionale ha imposto la distruzione delle intercettazioni che coinvolgevano Napolitano.
Scopriamo questa vicenda come nasce....

Martedì sera. Ore 20. La Corte Costituzionale accoglie il ricorso del Presidente della Repubblica sul conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Le trascrizioni delle telefonate del Capo dello Stato con l’ex Ministro dell’Interno Mancino devono essere distrutte. Dopo cinque ed ore di camera di consiglio, i giudici hanno dato torto ai PM di Palermo. Giusta la tesi dell’Avvocatura dello Stato, che ha strenuamente sostenuto che venisse applicato l’articolo 271, commi 1 e 3 del codice di procedura penale: “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge… In ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione sia delle intercettazioni  sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato”. E non è questo il caso. Anzi, si può dire che si sia scelto di infangare personalità eccellenti senza lo straccio di una prova. La Consulta ha chiarito con fermezza che non spettava ad  un giudice ordinario “valutare la rilevanza delle intercettazioni del Presidente della Repubblica”. 
Le motivazioni della sentenza non sono ancora note. Saranno pronte in gennaio. Le stanno scrivendo insieme i due relatori: Giuseppe Frigo, avvocato designato dal centro-destra e Gaetano Silvestri, giurista e da sempre in quota centro-sinistra. La Corte ha deciso “quasi” all’unanimità. Il che vuol dire, in termini poco giuridici, ma facilmente comprensibile a tutti, che i PM palermitani hanno “toppato” in pieno. E mentre il Processo è ancora fermo all’udienza preliminare, ha già fatto la sua prima vittima. Il 26 luglio scorso, le infamanti accuse contro di lui, avevano fatto morire di crepacuore Loris D’Ambrosio, 64 anni, consigliere giuridico del Quirinale. Era stato coinvolto nella vicenda, esattamente come Napolitano, per delle telefonate avute con Mancino. Il contenuto non era mai uscito, ma l’insinuazione è stata più pesante dell’accusa diretta e non ha retto. All’epoca, Antonio Ingroia, il magistrato che di questo processo ha fatto la sua bandiera, non spese una parola per D’Ambrosio. Oggi invece, il guatemalteco inviato speciale de “il Fatto Quotidiano”, urla allo scandalo. “Quella della Corte Costituzionale è una sentenza politica. Ne siamo usciti cornuti e mazziati”. Le sue parole sono pregne di diritto… E, perfettamente in accordo con la sua penna “eccellente”, il giornale di Travaglio titola in prima pagina: “La  Consulta si inventa una legge per dare ragione al Colle”. Ora, se Dio vuole, lo sanno anche le capre che le leggi le fa il Parlamento. La Consulta le interpreta sulla base della Costituzione e la sua decisione è vincolante. Forse, il PM più mediatico della storia repubblicana (oramai ha superato anche DI Pietro e de Magistris, di cui è grande supporter) avrebbe dovuto prendere esempio da Messineo, Procuratore capo di Palermo, che da magistrato ha dichiarato: “le decisioni della Corte non si discutono. Ne prendiamo atto”. Oramai è palese che Ingroia parli da futuro politico, più che da PM.
Ma, tralasciando gli sproloqui guatemaltechi dell’ex Procuratore aggiunto di Palermo, è bene capire su quali basi poggi questo processo. 
Conferma delle condanne del maxi-processo: Il 30 gennaio del 1992 la Cassazione conferma praticamente tutte le condanne inflitte in Appello contro i boss di Cosa Nostra. È la più grande conferma del cosiddetto “teorema Buscetta”, il primo pentito della storia, su cui si era basato il maxi-processo. La Suprema Corte dà, quindi, ragione a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti gli altri colleghi del pool-antimafia. Questa sentenza fa saltare tutti gli equilibri della criminalità organizzata palermitana. Gli accordi presi con i politici collusi non valgono più. Si apre l’ennesima e più sanguinaria guerra fra mafia e Stato.
Omicidio Lima: Salvo Lima, parlamentare della DC, interlocutore “privilegiato” di Cosa Nostra, viene ammazzato il 12 marzo del 1992 a Palermo. È il segnale inequivocabile che la mafia ha rotto il patto con quel ramo della politica con chi di solito tratta. Lima era, insieme a don Vito Ciancimino (ex Sindaco di Palermo), uno degli uomini più “collegati” con la Cupola. 
Stragi di Capaci e via D’Amelio: Nell’estate del ’92 Cosa Nostra alza il tiro. Il 23 maggio, Giovanni Falcone parte da Roma dove sta lavorando insieme a Claudio Martelli, Ministro di Grazia e Giustizia. Il suo aereo, un jet dei servizi segreti, atterra a Punta Raisi alle 17.00. Sale su una croma blindata. Altre due gli fanno da scorta. Si mette alla guida. Dopo 8 minuti viene fatto saltare in aria il tratto di autostrada che il giudice sta percorrendo, all’altezza di Capaci. Tre agenti perdono la vita sul colpo. Giovanni Falcone e sue moglie, Francesca Morvillo moriranno poco dopo. La strage passerà alla storia come “l’attentatuni”.
Poco più di un mese dopo, il 19 luglio, è la volta di Paolo Borsellino. In via D’Amelio, sotto casa di sua madre, ad aspettarlo c’è una Fiat 126 caricata con 100 chili di tritolo. È un’altra strage. Oltre a Borsellino muoiono 5 agenti di scorta. Una nota dei ROS, arrivata pochi giorni prima dell’attentato sul tavolo del Presidente del Tribunale di Palermo Pietro Giammanco, informava che in città era arrivato l’esplosivo destinato al giudice. Giammanco non aveva ritenuto rilevante la minaccia e non ne aveva parlato con Borsellino. A questo punto Cosa Nostra sembra essere soddisfatta dei segnali mandati allo Stato. Per qualche mese la mafia aspetta di vedere come reagirà la politica alle stragi.
Le stragi del 1993: L’anno dopo gli attentati di Capaci e via D’Amelio, ancora non si è mosso niente. Anzi, lo Stato ha deciso di adottare il pugno di ferro contro la criminalità organizzata. Cosa Nostra decide di cambiare strategia. I morti, in Sicilia, non fanno più notizia. Bisogna alzare ulteriormente il tiro. È il momento delle bombe in tutta Italia. La prima è quella di via dei Georgofili, a Firenze, nella notte fra il 26 e 27 maggio. Una Fiat imbottita di tritolo viene fatta esplodere davanti alla Torre del Pulci. Muoiono 5 persone. Due sono bambini. Restano ferite 48 persone. La torre viene quasi completamente distrutta. Lo Stato ancora non tratta. Allora vengono preparati altri attentati. Il 27 luglio esplodono due bombe a Roma, davanti San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. Contemporaneamente, un altro ordigno esplode a Milano, in via Palestro. Restano uccise 5 persone. Cosa Nostra ha fatto capire che andrà avanti così fino a quando lo Stato non sarà disposto ad accordarsi.
L’ipotesi: Il processo sulla trattativa Stato-Mafia parte tutta da un’ipotesi. Dopo le stragi del 1993, la politica decide di scendere a patto con Cosa Nostra per evitare che il bagno di sangue prosegua. In che modo? Alti ufficiali dei ROS (Raggruppamento Operazioni Speciali) dei Carabinieri, in particolare Mario Mori e Giuseppe De Donno, sarebbero andati da Don Vito Ciancimino per chiedergli di intercedere per loro con Bernardo Provenzano. Questi fatti sono stati riportati da un testimone eccellente, Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex Sindaco di Palermo. Ritenuto uomo-chiave di tutto il Processo nientepopodimenoche… da Ingroia, che lo definisce addirittura “quasi un’icona dell’antimafia”. Salvo essere sbugiardato dai suoi stessi colleghi che hanno incriminato Ciancimino jr. per calunnia e falsa testimonianza, scoprendo che sul famoso “papello” contenenti i presunti termini della trattativa, aveva aggiunto il nome del “nemico” Gianni De Gennaro, l’ex-capo della Polizia ora sottosegretario con delega ai servizi.
Ad oggi, le indagini non hanno portato a niente. L’unica “vittoria” dei giudici di Palermo è stata quella di ottenere che il processo contro l’ex Ministro Mancino resti a loro. Lo ha deciso il gup Piergiorgio Morosini, sostenendo che "connessione teleologica" fra l'omicidio di Salvo Lima, giustifica che l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia a Palermo. Un po’ poco per tenere in piedi un impianto accusatorio come quello messo su da Ingroia e dai suoi colleghi. Che adesso potrà anche gridare allo scandalo, accusando la Consulta di aver preso una decisione per motivi politici. E dice a Repubblica: “se fossi stato in Italia me ne sarei andato proprio oggi”. Come siamo stati fortunati….
Martedì sera. Ore 20. La Corte Costituzionale accoglie il ricorso del Presidente della Repubblica sul conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Le trascrizioni delle telefonate del Capo dello Stato con l’ex Ministro dell’Interno Mancino devono essere distrutte. Dopo cinque ed ore di camera di consiglio, i giudici hanno dato torto ai PM di Palermo. Giusta la tesi dell’Avvocatura dello Stato, che ha strenuamente sostenuto che venisse applicato l’articolo 271, commi 1 e 3 del codice di procedura penale: “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge… In ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione sia delle intercettazioni  sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato”. E non è questo il caso. Anzi, si può dire che si sia scelto di infangare personalità eccellenti senza lo straccio di una prova. La Consulta ha chiarito con fermezza che non spettava ad  un giudice ordinario “valutare la rilevanza delle intercettazioni del Presidente della Repubblica”. Le motivazioni della sentenza non sono ancora note. Saranno pronte in gennaio. Le stanno scrivendo insieme i due relatori: Giuseppe Frigo, avvocato designato dal centro-destra e Gaetano Silvestri, giurista e da sempre in quota centro-sinistra. La Corte ha deciso “quasi” all’unanimità. Il che vuol dire, in termini poco giuridici, ma facilmente comprensibile a tutti, che i PM palermitani hanno “toppato” in pieno. E mentre il Processo è ancora fermo all’udienza preliminare, ha già fatto la sua prima vittima. Il 26 luglio scorso, le infamanti accuse contro di lui, avevano fatto morire di crepacuore Loris D’Ambrosio, 64 anni, consigliere giuridico del Quirinale. Era stato coinvolto nella vicenda, esattamente come Napolitano, per delle telefonate avute con Mancino. Il contenuto non era mai uscito, ma l’insinuazione è stata più pesante dell’accusa diretta e non ha retto. All’epoca, Antonio Ingroia, il magistrato che di questo processo ha fatto la sua bandiera, non spese una parola per D’Ambrosio. Oggi invece, il guatemalteco inviato speciale de “il Fatto Quotidiano”, urla allo scandalo. “Quella della Corte Costituzionale è una sentenza politica. Ne siamo usciti cornuti e mazziati”. Le sue parole sono pregne di diritto… E, perfettamente in accordo con la sua penna “eccellente”, il giornale di Travaglio titola in prima pagina: “La  Consulta si inventa una legge per dare ragione al Colle”. Ora, se Dio vuole, lo sanno anche le capre che le leggi le fa il Parlamento. La Consulta le interpreta sulla base della Costituzione e la sua decisione è vincolante. Forse, il PM più mediatico della storia repubblicana (oramai ha superato anche DI Pietro e de Magistris, di cui è grande supporter) avrebbe dovuto prendere esempio da Messineo, Procuratore capo di Palermo, che da magistrato ha dichiarato: “le decisioni della Corte non si discutono. Ne prendiamo atto”. Oramai è palese che Ingroia parli da futuro politico, più che da PM.Ma, tralasciando gli sproloqui guatemaltechi dell’ex Procuratore aggiunto di Palermo, è bene capire su quali basi poggi questo processo. Conferma delle condanne del maxi-processo: Il 30 gennaio del 1992 la Cassazione conferma praticamente tutte le condanne inflitte in Appello contro i boss di Cosa Nostra. È la più grande conferma del cosiddetto “teorema Buscetta”, il primo pentito della storia, su cui si era basato il maxi-processo. La Suprema Corte dà, quindi, ragione a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti gli altri colleghi del pool-antimafia. Questa sentenza fa saltare tutti gli equilibri della criminalità organizzata palermitana. Gli accordi presi con i politici collusi non valgono più. Si apre l’ennesima e più sanguinaria guerra fra mafia e Stato.Omicidio Lima: Salvo Lima, parlamentare della DC, interlocutore “privilegiato” di Cosa Nostra, viene ammazzato il 12 marzo del 1992 a Palermo. È il segnale inequivocabile che la mafia ha rotto il patto con quel ramo della politica con chi di solito tratta. Lima era, insieme a don Vito Ciancimino (ex Sindaco di Palermo), uno degli uomini più “collegati” con la Cupola. Stragi di Capaci e via D’Amelio: Nell’estate del ’92 Cosa Nostra alza il tiro. Il 23 maggio, Giovanni Falcone parte da Roma dove sta lavorando insieme a Claudio Martelli, Ministro di Grazia e Giustizia. Il suo aereo, un jet dei servizi segreti, atterra a Punta Raisi alle 17.00. Sale su una croma blindata. Altre due gli fanno da scorta. Si mette alla guida. Dopo 8 minuti viene fatto saltare in aria il tratto di autostrada che il giudice sta percorrendo, all’altezza di Capaci. Tre agenti perdono la vita sul colpo. Giovanni Falcone e sue moglie, Francesca Morvillo moriranno poco dopo. La strage passerà alla storia come “l’attentatuni”.Poco più di un mese dopo, il 19 luglio, è la volta di Paolo Borsellino. In via D’Amelio, sotto casa di sua madre, ad aspettarlo c’è una Fiat 126 caricata con 100 chili di tritolo. È un’altra strage. Oltre a Borsellino muoiono 5 agenti di scorta. Una nota dei ROS, arrivata pochi giorni prima dell’attentato sul tavolo del Presidente del Tribunale di Palermo Pietro Giammanco, informava che in città era arrivato l’esplosivo destinato al giudice. Giammanco non aveva ritenuto rilevante la minaccia e non ne aveva parlato con Borsellino. A questo punto Cosa Nostra sembra essere soddisfatta dei segnali mandati allo Stato. Per qualche mese la mafia aspetta di vedere come reagirà la politica alle stragi.Le stragi del 1993: L’anno dopo gli attentati di Capaci e via D’Amelio, ancora non si è mosso niente. Anzi, lo Stato ha deciso di adottare il pugno di ferro contro la criminalità organizzata. Cosa Nostra decide di cambiare strategia. I morti, in Sicilia, non fanno più notizia. Bisogna alzare ulteriormente il tiro. È il momento delle bombe in tutta Italia. La prima è quella di via dei Georgofili, a Firenze, nella notte fra il 26 e 27 maggio. Una Fiat imbottita di tritolo viene fatta esplodere davanti alla Torre del Pulci. Muoiono 5 persone. Due sono bambini. Restano ferite 48 persone. La torre viene quasi completamente distrutta. Lo Stato ancora non tratta. Allora vengono preparati altri attentati. Il 27 luglio esplodono due bombe a Roma, davanti San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. Contemporaneamente, un altro ordigno esplode a Milano, in via Palestro. Restano uccise 5 persone. Cosa Nostra ha fatto capire che andrà avanti così fino a quando lo Stato non sarà disposto ad accordarsi.L’ipotesi: Il processo sulla trattativa Stato-Mafia parte tutta da un’ipotesi. Dopo le stragi del 1993, la politica decide di scendere a patto con Cosa Nostra per evitare che il bagno di sangue prosegua. In che modo? Alti ufficiali dei ROS (Raggruppamento Operazioni Speciali) dei Carabinieri, in particolare Mario Mori e Giuseppe De Donno, sarebbero andati da Don Vito Ciancimino per chiedergli di intercedere per loro con Bernardo Provenzano. Questi fatti sono stati riportati da un testimone eccellente, Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex Sindaco di Palermo. Ritenuto uomo-chiave di tutto il Processo nientepopodimenoche… da Ingroia, che lo definisce addirittura “quasi un’icona dell’antimafia”. Salvo essere sbugiardato dai suoi stessi colleghi che hanno incriminato Ciancimino jr. per calunnia e falsa testimonianza, scoprendo che sul famoso “papello” contenenti i presunti termini della trattativa, aveva aggiunto il nome del “nemico” Gianni De Gennaro, l’ex-capo della Polizia ora sottosegretario con delega ai servizi.Ad oggi, le indagini non hanno portato a niente. L’unica “vittoria” dei giudici di Palermo è stata quella di ottenere che il processo contro l’ex Ministro Mancino resti a loro. Lo ha deciso il gup Piergiorgio Morosini, sostenendo che "connessione teleologica" fra l'omicidio di Salvo Lima, giustifica che l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia a Palermo. Un po’ poco per tenere in piedi un impianto accusatorio come quello messo su da Ingroia e dai suoi colleghi. Che adesso potrà anche gridare allo scandalo, accusando la Consulta di aver preso una decisione per motivi politici. E dice a Repubblica: “se fossi stato in Italia me ne sarei andato proprio oggi”. Come siamo stati fortunati….  http://www.ilgiornaleditalia.org/news/primopiano-focus/843953/Storia-di-un-processo--che.html

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